A Donald Wood Winnicott piaceva insegnare dialogando, che si trattasse di allievi delle scuole per infermieri o dei colleghi della Società Psicoanalitica Britannica. Perché per lui insegnare era un’occasione per approfondire, ma anche per chiarire a se stesso, mentre cercava di render chiaro per gli altri. Come a lezione con gli allievi, così nelle sedute coi pazienti o nel disegnare scarabocchi con un bambino, l’atteggiamento di Winnicott era quello di chi vuole veramente, semplicemente, imparare. Ogni incontro diventava così uno “spazio potenziale” dove coniugare l’apprendimento e la creatività. E il gioco. Il gioco non serve solo a comunicare, serve a. . . giocare.
Leggiamo spesso negli scritti di psicologia della religione che la disciplina in quanto tale si occupa di studiare atteggiamenti, comportamenti, credenze, sia delle persone che affermano di aderire a una fede religiosa, sia di coloro che, pur essendo cresciuti in un contesto che li ha “educati” all’esperienza di fede, se ne sono distaccati e negano una qualsiasi forma di credenza in Dio. Nonostante queste affermazioni, è però raro trovarsi di fronte a ricerche e studi in psicologia della religione che abbiano approfondito la “fede” degli atei. Su questo argomento, è stato recentemente pubblicato sulla rivista dell’APA, Monitor on psychology, luglio/agosto 2020 (pp. 54-57), un interessante intervento dal titolo “What do you believe?”(“In cosa credi?”).
«La psicoanalisi in se stessa non è né religiosa né irreligiosa, bensì uno strumento imparziale, di cui può servirsi sia il religioso che il laico, purché venga usato unicamente per liberare l’uomo dalle sofferenze. Sono rimasto molto colpito nel rendermi conto che non avevo pensato all’aiuto straordinario che il metodo psicoanalitico può fornire alla cura delle anime, ma questo è certo successo perché un malvagio eretico come me è troppo lontano da questa sfera di idee» (Carteggio col Pastore Pfister).
Può destare meraviglia ed interrogativi che un campo così universale ed essenziale per la vita dell’uomo, come quello del lavoro, studiato da una specifica Psicologia del lavoro sia così raramente confrontata con il mondo della religione e con la Psicologia della religione. Eppure è così. Se ne è avuta una prova anche al recente congresso della IAPR- Interational Association for Psychology of Religion tenutosi a Danzica in agosto 2019 che aveva per titolo, Psychology of Religion and Spirituality: New Trends and Neglected Themes. Nonostante qualche timido accenno in forma di Symposium, il tema dei rapporti psicologici tra religione e lavoro appare “negletto” tra gli psicologi della religione.
L’incontro con chi appare come un estraneo rispetto alla propria condizione di esistenza movimenta sorpresa e inquietudine: se ci si pensa, la stessa radice latina hostis (straniero, nemico) permea anche il linguaggio anglosassone, che indica con g-host uno spettro oscuro, che aleggia come un’ombra emotiva nascosta tra le pieghe dell’esperienza psichica. Fantasmi che, se ignorati e non compresi, possono qualche volta prendere il sopravvento nell’esperienza personale e collettiva, colonizzando i comportamenti, le convinzioni e le scelte.
Il modello dei fenomeni transizionali e dei processi di illusione fornisce interessanti punti di vista per lo studio dell’esperienza religiosa e, in genere, del vissuto religioso. Permette di cogliere la vitalità psicologica dell’esperienza religiosa e il suo potenziale trasformativo per la personalità. Reciprocamente, può individuare modalità de-viate e per-verse (ad esempio, autistiche o feticistiche) di strutturazione ed evoluzione della medesima esperienza; oppure avviare adattamenti creativi e innovativi, rispetto al sistema simbolico religioso istituzionale.
Sommario: 1. Cenni autobiografici; 2. Silenzio o dialogo in analisi?; 3. L’analisi come luogo di relazionalità e narratività; 4. . Domanda preliminare in un percorso analitico aperto alla dimensione religiosa; 5. Dove si situa il religioso all’interno della mente dell’uomo?; 6. Psicologia culturale della religione. Il contesto odierno; 7. I Movimenti ecclesiali e le Nuove Comunità; 8. Arretramento o eclissi dell’interesse religioso?; 9. Conversioni e riconversioni; 10. Considerazioni a partire dalla clinica; 11. Riferimenti bibliografici.
Si tratta di una questione che da diversi anni occupa una parte notevole del dibattito interno alle scienze sociali che si occupano della religione, in parte contribuendo a complicare ulteriormente la riflessione, poiché le diverse discipline (filosofia della religione, antropologia e storia delle religioni, sociologia e psicologia) attribuiscono all’idea di spiritualità una pluralità di significati non facilmente determinabile in modo univoco e comprensivo.
Nel titolo, l’“incredibile” esprime la meraviglia: non ci si crede, non ci si crederebbe, a tanto bisogno di credere in ogni uomo. Si parla spesso, oggi, di bisogno di credere, di ritorno della religione, ma anche di religione senza Dio, di spiritualità dell’ateo… Propongo una mia lettura, che accentua le dimensioni profonde ed inconsce del bisogno di credere nell’uomo, un approccio alla questione, che lasci la possibilità di esplorare ed arricchire ulteriormente la riflessione personale: riconoscere e ascoltare in noi stessi il bisogno di credere.
Appena l’evento sale agli altari della cronaca nazionale, i diversi rappresentanti istituzionali laici si apprestano ad offrire il proprio parere sottolineando come il credo religioso non possa essere foriero di soprusi e limitazioni. Contemporaneamente, la comunità islamica sottolinea come l’imposizione di una fede religiosa non abbia alcun senso per la crescita della persona, tanto più se contrassegnata da duri comportamenti correttivi genitoriali che sfociano nel maltrattamento o nell’abuso. Da più parti poi si sottolinea anche come l’appello alla liberà e al pluralismo religioso non possa dare adito ad equivoci: la compresenza e l’accettazione di diverse tradizioni religiose non può giustificare forme di sopruso che ledono la libertà delle persone.