Quando si affronta la questione dell’educazione religiosa dei bambini alla luce del loro sviluppo psico-affettivo, è bene chiarire subito quale sia la prospettiva secondo la quale verrà sviluppato il tema: la psicologia della religione. Il compito di questa disciplina è quello di dare dei giudizi di valore psicologico.
Anzitutto cerchiamo di definire cosa s’intende per religiosità.
Da un punto di vista operazionale, è indispensabile prendere in considerazione quelli che in gergo accademico sono definiti “correlati psicologici” del fondamentalismo religioso. I correlati del fondamentalismo rappresentano tutte quelle dimensioni psicologiche associate al fondamentalismo religioso, di cui si possiedono dati empirici a sostegno di tale associazione. Quanto più il loro legame è accessibile alla conoscenza, tanto più la variabile oggetto dell’indagine (nel nostro caso il fondamentalismo religioso) avrà validità e attendibilità.
Dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11/09/2001, il massacro di massa al campo dei Workers’ Youth League (AUF) del partito laburista del 2011, il termine fondamentalismo è stato usato estensivamente in maniera incorretta per etichettare fenomeni socioculturali affini quali: terrorismo, integralismo ed estremismo. Il fondamentalismo religioso pertanto, è diventato l’oggetto d’interesse non solo di accademici e studiosi, ma anche di qualsiasi cittadino sensibile alle vicende storico-sociali contemporanee, conducendo inevitabilmente alla diffusione di definizioni erronee e/o incorrette del fenomeno.
Nel rito religioso, la partecipazione (cioè il “prender parte”) del credente, suppone la capacità creativa e progressiva, di assimilazione e di adesione del soggetto, non meno che il radicamento nel dato biologico-socio-culturale del simbolo. Mette in gioco le dinamiche emotive interne del soggetto, la sua competenza cognitiva e la sua interazione con la cultura ambiente. La lettura psicologica deve perciò utilizzare, insieme, una prospettiva dinamica, cognitiva e sociale.
Fin dalla metà dell’800 gli studi dapprima medico-psicologici e poi psicologici in senso proprio ‘applicati’ alla storia, alla letteratura, alla mitologia, alla religione e in genere ad oggetti culturali si moltiplicano con un’urgenza di comprensione totale, se non addirittura di spiegazione scientifica, di ogni manifestazione e produzione umana… Anche l’approccio psicologico alle Confessioni segue questa evoluzione interna ed esterna, interna cioè alle discipline di provenienza e al dibattito teorico-metodologico in corso in esse ed esterna quanto alla validità, utilità e legittimità, oltre che all’apporto reale da esso dato alla comprensione sempre più profonda del testo e della figura del suo autore.
La psychologie de la religion est l’étude de ce qu’il y a de psychique dans la religion. Elle cherche à rendre compte des procès psychiques sous-entendus dans le “dire Dieu” de la part de l’individu et des groupes sociaux. La psychologie, science empirique, prend comme objet un phénomène concret, observable : cet homme-ci qui, dans ce contexte culturel, se mesure à cette religion-là. Comment il le fait, à travers quels processus et interactions avec l’ensemble de sa personnalité, avec quels conflits et avec quels résultats : c’est là l’objet de la psychologie de la religion. À partir de ces considérations on tâche de montrer comment la perspective psychosociale et celle clinique offrent des parcours de recherche pour déconstruire des concepts, élaborer des méthodes, proposer des techniques de recherche.
Vergote’s work in the psychology of religion is characterized by being both fundamental and applied, both empirical and at the same time theoretical. Vergote’s is a highly complex stand in what is classically called the issue of the relationship between faith and reason. Finally the issue with which he raised substantial attention in the last century: his controversial critique of the idea that the human being would be naturally religious, Vergote’s comment on this idea, this apriori, is remarkably short and dry: “it is just an idea”.
“Fede è sostanza di cose sperate/et argomento delle non parventi” dice Dante citando alla lettera San Tommaso. Mille anni prima, un altro Tommaso, che si era proposto di non credere se non in quello che vedeva e toccava, si era sentito rimproverare “Beati coloro che hanno creduto, senza aver visto” (Gv. 20, 29). Eppure il credente continua a cercare “cose”, fatti, dimostrazioni visibili e materiali per giustificare e alimentare la propria fede. Questo apre una serie di interrogativi di interesse psicologico.
Superando la deriva concettuale soggiacente all’uso confusivo della parola “mistica” individuare alcune caratteristiche della mistica autentica quale può essere considerata dal punto di vista scientifico della psicologia e, insieme dalla rispondenza ad una visione religiosa o almeno di alta spiritualità.
Sia il non credente, sia il credente, adottano, in linea di principio, una medesima prospettiva razionale nella rilettura filosofica e psicologica. Per tale prospettiva razionale, la parola “credere” ha il senso propriamente epistemologico ben definito dal fenomenologo E. Husserl: la credenza è un sapere della ragione che non è ancora una conoscenza criticamente certa di se stessa.